Il corpo del Beato Ippolito Galantini esposto in Duomo nel quarto centenario della morte

Beato Ippolito Galantini - Foto del Giornalista Franco Mariani (2)“Un servitore della parola di Dio per la formazione delle coscienze di ragazzi, giovani e adulti, da meritarsi dall’arcivescovo del tempo il titolo di Apostolo di Firenze”. Con queste parole il Cardinale Giuseppe Betori, Arcibiskup z Florencie, ha accolto in Duomo le spoglie mortali, incorrotte, del Beato Ippolito Galantini, che per alcuni mesi rimarranno esposte alla venerazioni dei fedeli nella chiesa cattedrale in occasione del quarto centenario della morte, avvenuta poco dopo il mezzogiorno del 20 Březen 1620, ve věku 54 roky.

“Ne vogliamo onorare oggi la memoria – ha proseguito il porporato -, dobbiamo soprattutto rinnovare la dedizione con cui egli, semplice laico, divenne strumento di rinnovamento della Chiesa nei decenni che seguirono il Concilio di Trento, anch’egli in un cambiamento d’epoca come siamo noi oggi. E la sua opera era proprio la proposta di un’esperienza di fede in cui si intrecciavano dottrina e spiritualità, conversione personale e edificazione comunitaria”.

Lo scorso 3 Říjen, aprendo le celebrazioni del IV centenario della morte, il Cardinale Betori disse che dobbiamo “rendere grazie a Dio per il dono fatto a Firenze con la testimonianza di santità e di apostolato con cui questo suo figlio ha illuminato il proprio tempo e continua a essere fino ad oggi un richiamo all’importanza dell’educazione della fede”.

“Il beato Ippolito può essere ben identificato in una delle persone fidate a cui gli arcivescovi fiorentini del tempo poterono affidare la dottrina della Chiesa, perché egli chiamasse il maggior numero possibile di ragazzi, giovani e adulti a confrontarsi con la parola di Dio e le esigenze che essa poneva alla riforma dei costumi e della società. Il beato Galantini, prima di giungere alla Confraternita di San Francesco detta dei Vanchetoni, si ritrovò a trasmigrare in città da una Compagnia all’altra, sempre pronto a farsi da parte per non dare un’immagine di sé come voglioso di potere. Lo stesso nome popolare dato alla Confraternita da lui fondata, quello di Vanchetoni, ha la sua origine nell’atteggiamento umile del beato Ippolito che egli condivideva con i suoi seguaci, i quali, procedendo a testa bassa, venivano detti ‘quelli che vanno cheti cheti, o chetoni chetoni’”.

Ippolito Galantini nacque il 12 Říjen 1565 e sin da quando era bambino amava raccogliersi in preghiera in chiesa, ascoltando prediche e ripetendole ai suoi giovanissimi coetanei, che radunava intorno a sé.

Suo padre era un tessitore ed egli stesso venne avviato al telaio, ma forte fu la sua vocazione alla catechesi, che lo portò fin dall’adolescenza a istruire i coetanei su questioni della fede, creando un gruppo di devoti a lui legati.

V 1599 il Cardinale Arcivescovo Alessandro de’ Medici, futuro Papa Leone XI, fu colpito dalla sua figura e lo nominò, sebbene giovanissimo, maestro di dottrina cristiana presso la chiesa di Santa Lucia al Prato, pur essendo laico, come rimase per tutta la vita.

A soli 17 roky, dopo essere stato rifiutato dai cappuccini per la salute cagionevole, fu a capo della Congregazione di Santa Lucia e poi di quella del Santissimo Salvatore, entrambe congregazioni di fedeli laici.

Conduceva una vita di grandi sacrifici in nome della fede – digiunava tre volte alla settimana, mangiava solo cose povere e di notte dormiva pochissimo per poter pregare -, che destò l’ammirazione di molti, radunado un certo numero di seguaci.

Quando i francescani di Ognissanti gli donarono un terreno che faceva parte dell’orto del loro convento a Firenze, grazie alle coispicue donazioni anche della famiglia granducale e dell’arcivescovo Alessandro de’ Medici, poté far costruire un grande oratorio che venne iniziato il 14 Říjen 1602.

Qui poté occuparsi della sua attività di catechesi in maniera autonoma. Dotato di geniale intuito pedagogico, la sua attenzione fu sempre rivolta soprattutto all’istruzione umana, morale e religiosa dei ceti più modesti della popolazione e durante gli anni trovò sempre anche il tempo di aiutare il padre nel lavoro.

V 1604, completato l’oratorio, fondò la Congregazione di San Francesco della Dottrina cristiana, una congregazione formata da fedeli laici che ebbe un notevole successo fin dall’inizio, diffondendosi anche in altre località toscane e emiliane, dove fu inviato a istruire i suoi seguaci.

La Congregazione venne detta anche popolarmente Compagnia dei Vanchetoni, l’andare silenzioso (cheto) dei confratelli nelle processioni.

Nonostante la sua fama fu comunque oggetto dell’invidia dei benpensanti del tempo che non mancarono di mettere in atto numerose azioni calunniose nei suoi confronti sia presso il Nunzio Apostolico che presso l’Inquisitore tanto che il suo confessore, il gesuita Zaffarani fu costretto ad andare in esilio e ad interrompere ogni contatto con Ippolito.

Morì nel 1619 a Firenze e la grande fama richiamò un gran numero di persone che, mosse dalla sua fama di miracolatore e taumaturgo, cercarono di toccarne il corpo, minacciando la funzione: allora l’arcivescovo dovette minacciare la scomunica per chi toccava il corpo, in modo da proteggerlo da quegli slanci.

Venne dichiarato venerabile nel 1756 da Benedetto XIV e fu beatificato il 19 Červen 1825 da papa Leone XII.

Perché l’attività catechistica, specialmente parrocchiale, sia posta sotto la particolare protezione del beato Ippolito, od 1964 la sua memoria liturgica è fissata in coincidenza con la ripresa annuale della medesima, v 3 Říjen, anziché la precedente data, v 20 Březen, data della sua morte.

Riprese video e foto di Franco Mariani.

Frank Mariani
Podle čísla 276 – Anno VI del 18/12/2019

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Questo il testo integrale dell’omelia tenuta dal Cardinale Giuseppe Betori lo scorso 2 ottobre in occasione della celebrazione per l’apertura del 400° anniversario della morte del Beato Ippolito Galantini svoltasi all’Oratorio della Congregazione della Dottrina Cristiana, detta dei Vanchetoni, in via Palazzuolo a Firenze:

Nel quarto centenario della morte del B. Ippolito Galantini ci ritroviamo nell’oratorio della sua Congregazione della Dottrina Cristiana per rendere grazie a Dio per il dono fatto a Firenze con la testimonianza di santità e di apostolato con cui questo suo figlio ha illuminato il proprio tempo e continua a essere fino ad oggi un richiamo all’importanza dell’educazione della fede.

Della fede e del suo insegnamento ci ha parlato san Paolo nella lettera indirizzata al discepolo Timoteo, che viene istruito dall’apostolo in considerazione della responsabilità che ha ricevuto nella Chiesa, come pastore della comunità cristiana di Efeso. Al centro della responsabilità del pastore sta l’accoglienza della parola della fede e la sua trasmissione agli uomini.

Paolo parla di «sani insegnamenti», lasciando intendere che la verità cristiana va salvaguardata nella sua purezza contro ogni possibile adulterazione. Già in questo abbiamo una preziosa indicazione che riveste oggi particolare attualità. La fede rischia di essere piegata alla debolezza dell’uomo e di subire le insidie delle ideologie che vorrebbero catturarla. A garantire la coerente trasmissione della fede l’apostolo pone tre riferimenti significativi. Il primo è la stretta connessione con la tradizione apostolica: Timoteo deve avere come modello l’insegnamento che ha udito da Paolo; sono le parole che Paolo ha proclamato che devono continuare ad essere trasmesse. Il secondo riferimento riguarda il modo con cui la verità va accolta e compresa: non come un sapere astratto su Dio e sul mondo, ma una parola viva da guardare con gli occhi della fede e dell’amore, che sono in Gesù Cristo; una verità viva della vita stessa di Cristo, così da assumere il suo sguardo e il suo cuore nel dire Dio e il mondo. Come terzo riferimento giunge l’invito a custodire la verità cristiana come un bene prezioso affidandosi allo Spirito Santo che ci è stato donato e che deve dar forma alla nostra vita. La dimensione storica della tradizione ecclesiale e quella spirituale che ci fa discepoli dello Spirito Santo convergono nel guardare alla dottrina cristiana non come a un’arida somma di asserti, ma come a un modo di guardare alla vita che è lo stesso di Cristo.

Tutto questo ci sembra di poter riconoscere nell’esperienza del B. Ippolito e delle sue Congregazioni della Dottrina Cristiana: un’esperienza certamente dottrinale, sia pure nei limiti dell’esortazione morale, secondo i confini posti nella Chiesa del tempo all’insegnamento dei laici nelle varie Compagnie e Confraternite; ma soprattutto un’esperienza spirituale, che alimentava percorsi di conversione e di speciale consacrazione al Signore.

Questa figura di un laico che anima la formazione della fede nel tempo di rinascita ecclesiale che seguì il Concilio di Trento, trova un riferimento ancora nella lettera paolina nelle parole con cui Paolo invita Timoteo a trasmettere le cose da lui udite «a persone fidate, le quali a loro volta siano in grado di insegnare agli altri» (2Tm 2,2). Il B. Ippolito può essere ben identificato in una di queste «persone fidate», a cui gli arcivescovi fiorentini del tempo poterono affidare la dottrina della Chiesa, perché egli chiamasse il maggior numero possibile di ragazzi, giovani e adulti a confrontarsi con la parola di Dio e le esigenze che essa poneva alla riforma dei costumi e della società.

Che un tale insegnamento possa suscitare opposizioni fu esperienza di Paolo e di Timoteo e non mancò di ripresentarsi sul cammino del B. Ippolito, soggetto ad avversità e ostacoli, sempre accolti con umiltà.

E qui raggiungiamo il testo evangelico, in cui Gesù avverte i suoi discepoli a non porre sé stessi al centro della vita comunitaria, riconoscendo l’unico fondamento di essa in Dio Padre e nel suo Figlio. Si staglia dietro le parole del vangelo l’ombra della ricerca di spazi di dominio e posizioni di superiorità nella Chiesa. Ma nella Chiesa non possono esserci egemonie, bensì solo servizi: «Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo» (Mt 23,11). Vale a dire che la grandezza di fronte al Signore e ai fratelli non è data dal potere che si esercita ma dal servizio che si rende. Quanto più ci si fa servi, tanto più si è grandi. Non che si intenda negare che ci sia un esercizio dell’autorità nella Chiesa, ma questa non è un dominio bensì essa stessa un servizio. In tal senso mi sembra che si possa leggere anche la parabola della vita del B. Ippolito Galantini che, prima di giungere alla Confraternita di San Francesco detta dei Vanchetoni si ritrovò a trasmigrare in città da una Compagnia all’altra, sempre pronto a farsi da parte per non dare un’immagine di sé come voglioso di potere. Lo stesso nome popolare dato alla Confraternita da lui fondata, quello di Vanchetoni, ha la sua origine nell’atteggiamento umile del B. Ippolito che egli condivideva con i suoi seguaci, i quali, procedendo a testa bassa, venivano detti «quelli che vanno cheti cheti, o chetoni chetoni».

Non si tratta però di un puro atteggiamento esteriore e neppure di un comportamento per così dire virtuoso, bensì di consapevolezza di far parte di una storia della salvezza in cui il Figlio di Dio, nostro Salvatore, come afferma la lettera ai Filippesi, «svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome» (Fil 2,7-9). E l’umiltà è il carattere proprio della prima fra i credenti, la Vergine Maria: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata» (Lc 1,46-48).

Un’ultima riflessione va dedicata alle modalità con cui, secondo il vangelo di Matteo, può prendere forma la ricerca del dominio nella comunità ecclesiale. La prima è quella con cui si pretende di essere noi la fonte della verità, in sostituzione dell’unico Maestro, della cui parola dobbiamo invece tutti metterci in obbediente ascolto. La seconda consiste nel non riconoscere che l’unica sorgente della nostra vita è Dio e non possiamo pensare di essere capaci di generare da noi stessi alcuna realtà, autodeterminandoci. Třetí, na poslední, è il pericolo che si pensi di poter costruire da soli un progetto valido per la nostra vita, una strada sicura da percorrere, in una sorta di assoluta autonomia morale, rinnegando colui che solo conosce il cammino verso il bene, il Signore Gesù.

A questa centralità del Padre e del Figlio suo indirizza la dottrina cristiana, l’insegnamento della vita buona, che il B. Ippolito ha diffuso nel suo tempo e che ora tocca a noi riproporre nelle modalità più consone ai nostri giorni. L’intercessione del nostro beato ci sostenga nel nostro impegno pastorale.

Giuseppe card. Betori